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Essere vittima o diventare protagonista?

Essere vittima è un atteggiamento, una risposta a situazioni o realtà con le quali entro in contatto.

Se ho un atteggiamento vittimistico, tendo a NON ACCETTARE quello che mi capita. Anche se, magari senza rendermene conto, l’ho provocato io. Non accetto nemmeno come si comportano gli altri: c’è sempre qualcosa che disapprovo o che mi dà fastidio in quello che fanno. Non accetto l’ambiente familiare, sociale, politico o naturale nel quale vivo. Così come non accetto, perché lo trovo ingiusto e crudele, che al mondo ci siano persone che soffrono, che patiscono la fame, che vivono in condizioni tristissime. Anche se non faccio nulla in concreto che possa aiutarle, perché non è compito mio, ma delle associazioni umanitarie e dei governi.

In breve, se non accetto qualcosa, ne sono vittima.

Il problema è che non posso farmi piacere tutto! Io mi arrabbio perfino se mi cade qualcosa di mano. Non accettare certe cose che mi capitano, mi sembra più che normale: naturale e giusto. Davanti poi a un ostacolo che m’impedisce di fare quello che avevo programmato, io non solo non lo accetto, ma passo dalla frustrazione all’arrabbiatura più nera.

Dunque, sono vittima di quell’ostacolo, del caso, degli altri e del destino. Lo ammetto, ma che alternativa ho? Far finta di niente, masticare la rabbia o, peggio, ostentare una calma che non sento, mi sembra soltanto un’indecente ipocrisia.

Essere vittima. Essere una bambina arrabbiata.
Fonte: Leonardo AI

Ho notato, osservandomi e non senza curiosità, che alle mie lamentele, erano due le reazioni di chi mi ascoltava. E io reagivo di conseguenza, come un automa. C’era chi, dopo un po’, mi diceva: “Su, non fare la vittima!” Io mi sentivo quasi offesa dalla sua poca considerazione per i miei guai. “Non si tratta di fare la vittima! – sbottavo – Ti sto raccontando che cosa mi è successo. Ti sembra che dovrei rallegrarmi invece che piangere?” Diventavo aggressiva.

E c’era chi, invece, faceva il coro con me, finendo per raccontarmi pure i suoi, di guai. Entravamo in un pantano di lamentele senza fine. Era un gioco a chi tirava l’altro più in basso, consolandoci a vicenda.

Insomma, sono una vittima! Ma questo atteggiamento mi darà dei vantaggi ai quali non voglio rinunciare! Altrimenti non avrebbe senso la mia ostinazione nel voler essere vittima. Li ho cercati, dentro di me.

I vantaggi del fare la vittima

Se mi lamento, fin da piccola, qualcuno corre in mio aiuto e fa le cose per me.

Se piango, suscito pena, a volte pietà e qualcuno si dà da fare per consolarmi. Si occupa di me.

Se impreco e mi arrabbio perché le cose non vanno come intendo io, ho sputato sul mondo il mio livore. È giusto che tutti sappiano! E mi sento a posto così. Ho detto loro quello che meritano!

La lista dei presunti vantaggi è lunga, ma, per quanto abbia esplorato dentro di me, la conclusione è una sola: essere vittima mi permette di urlare, lamentarmi, piangere, ma, soprattutto, DI NON FARE NULLA per cambiare le cose! Sono gli altri che ci devono pensare, eventualmente.

Essere vittima. Una bambina che piange e strilla.
Fonte: Leonardo AI

Riconoscere il vittimismo

Riconoscere il mio vittimismo è stato per me un passo importante. Accettarlo è il passo fondamentale, perché mi porta a non nasconderlo, a non rifiutarlo. Se non lo rifiuto, mi ascolto. Mi osservo. Permetto alla mia parte vittima di esprimersi.

La lasciavo esprimersi anche prima, ma ero un po’ troppo d’accordo con lei. Le davo ragione. È vero: queste cose non si possono accettare!” “Sarò anche vittima, ma non si può permettere che tutti facciano quello che vogliono!” Ero troppo identificata in un personaggio vittimistico. Osservandomi me ne distacco un poco e posso ascoltarla immaginando che sia una bambina un po’ rognosa, per la verità, sempre scontenta, di quei bambini che si buttano per terra e strillano scalciando per imporsi. Ma è solo una bambina e spetta a me gestirla.

Come diventare protagonista?

Questa estate, al lago, mentre mi ero appisolata sulla sedia a sdraio, sono stata svegliata dalle urla di una bimbetta di forse due anni, che non voleva farsi mettere i sandalini e seguire il padre in albergo. Guardando la scena sentivo dentro la voglia di darle due belle sberle sulle gambette. Quelle che, secondo mia nonna, riportavano le cose nella giusta posizione. Il padre, invece di reagire, la guardava urlare e poi, sorridendo, ha aperto le braccia per accoglierla. Dopo due minuti, la bimba è corsa da lui, che l’ha presa in braccio e se l’è portata via. Ecco, quando la mia parte vittima fa le bizze, io ripenso a quella scena, la lascio urlare e poi…la accolgo. E funziona!

Padre con bambina
Fonte: Leonardo AI

Il protagonista risolve le situazioni

Quando la mia parte vittima si è sfogata e calmata, allora posso chiedermi, riguardo al problema che l’ha fatta scatenare: COME POSSO RISOLVERE?

Perché, se mi fermo a piangermi addosso, a lamentarmi e a imprecare, le cose andranno a posto da sole?

Ci sarà sempre qualcuno che accorrerà a risolvermi tutto nel modo che intendo io?

I miei presunti diritti saranno riconosciuti e rispettati? Gli altri faranno come dico io?

Bambino che fa un compito di matematica
Fonte: Leonardo AI

Ne dubito. Ma, mi sono chiesta, se mi trovo in una situazione che non si può risolvere? Un terremoto e la casa distrutta. Una separazione. Una brutta malattia o un lutto. A volte la situazione che dobbiamo affrontare è pesante e, sembra, senza soluzione.

In questo caso occorre accettare – ancora questa magica parola – che certe cose possano accadere anche a me. Ma non con l’atteggiamento di chi è costretto a subire una catastrofe o a sopportare situazioni pesanti. Ma nemmeno mostrare indifferenza o superiorità, chiudendo fuori dalla nostra porta la sofferenza, la paura e, a volte, la disperazione.  Tutte le emozioni vanno vissute e man mano che si calmano, mi permetteranno di far fronte al problema nel miglior modo possibile per me.

Aurora Mazzoldi