Dipendenza affettiva

Dipendenza affettiva e teoria dell’attaccamento

Aurora Mazzoldi - Madre 1 - Il Possesso - Dipendenza affettiva (particolare)
Aurora Mazzoldi – Madre 1 – Il Possesso (particolare)

Tra i tanti meccanismi comportamentali che si possono trattare attraverso il preziosissimo ausilio fornito dalle tele di arte introspettiva possiamo individuare la dipendenza affettiva (o attaccamento in termine più tecnico), che è qualcosa di diverso dal bisogno di contatto..

In questo mio scritto vorrei correlare tali argomentazioni a quella che è il caposaldo delle teorie psicologiche classiche sull’attaccamento, ossia la teoria di John Bowlby uno dei maggiori esponenti della scuola psicoanalitica britannica.

Secondo Bowlby, l’attaccamento è un qualcosa che, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo. Questo, dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad un’unica figura. E’ molto probabile che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino. Però, come Bowlby ritiene, non c’è nessuna evidenza che avalli l’idea che un padre non possa diventare figura di attaccamento. Sempre nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino.

Il Legame di attaccamento

La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza d’attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver. Stabilisce anche la formazione di modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Con la crescita, l’attaccamento iniziale che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un “care giver di riferimento”, si modifica. Si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a ridursi notevolmente. Nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà infatti maturato la capacità di separarsi dal care giver primario. Così si potrà legare a nuove figure di attaccamento.

Emerge una considerazione, ai miei occhi molto interessante,  quella cioè che il legame di attaccamento non è limitato all’infanzia. Esso dura “dalla culla alla tomba”. Tutto quello che si classifica, in maniera quasi dispregiativa e sicuramente patologica, con il termine “dipendenza affettiva” è in realtà un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano. Un desiderio di stare quanto più vicino possibile a chi gli vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di lui.

Accettazione del bisogno di contatto.

Questa è un’accezione nuova e inconsueta dei termini attaccamento/dipendenza. Si basa sulla ricerca di contatto e sulla serena accettazione del nostro innato bisogno di dipendenza affettiva. Tutto questo contrapposto a un tessuto sociale  contemporaneo votato alla separazione, all’isolamento. La disgregazione esterna è, in questo caso, un diretto riflesso di quella interna, del rifiuto del bisogno di contatto con gli altri. Sembra che si faccia a gara per dimostrare la nostra “indipendenza” (illusoria in realtà) dalle relazioni affettive, sociali, familiari. Indipendenza da tutto quello che può rappresentare una continuità e un punto fermo nella nostra esistenza.

La dipendenza viene confusa con la fragilità e la debolezza. Di converso si vede la forza  come isolamento, assenza di legami, rifiuto della continuità, rifiuto del radicamento affettivo. Si assiste, a mio giudizio, ad uno stravolgimento dei significati. Si perseguono delle negazioni inconsce di qualcosa che è innato e necessario per la nostra sopravvivenza e per il nostro equilibrio psico-fisico.

Come ben diceva Bowlby, noi ci alimentiamo di contatto e ne abbiamo un profondo bisogno. Si tratta di un’esigenza istintuale ed innata che accompagna la specie umana. Quello che accade ai giorni nostri è che quando si nega, si rifiuta, si soffoca e si cerca di ignorare un bisogno primario, si cade prima nel malessere e nel disadattamento e poi, nei casi più estremi, si può giungere fino alla patologia.

Il punto di vista Introspettivo

Penso che, anche da un punto di vista psicologico-introspettivo, la cosa più importante sia accogliere con serena accettazione il proprio bisogno di contatto. Questo, forti del fatto che c’è sempre tempo per trovare “una base sicura”. Non è mai troppo tardi per chiedere protezione e affidarsi e magari giungere a creare dentro di noi tale “base sicura”. Essa non è un privilegio dell’età infantile, né tanto meno un sintomo di debolezza. E’ un bisogno che tutti noi portiamo dentro in diversa misura secondo il nostro personale percorso di vita. Come tutti i bisogni, chiede solo di essere soddisfatto e non certo di essere giudicato.

Antonella Giannini

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    2 commenti su “Dipendenza affettiva”

    1. “con il termine “dipendenza” è in realtà un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano di stare quanto più vicino possibile a chi gli vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di lui.”
      la mia dipendenza la sento diversa .. (non penso a chi in caso di bisogno può prendersi cura di me ) . mi sento dipendente della mia famiglia , dedico anima e corpo ai loro fabbisogni fino al punto di annullarmi di non riconoscere i miei veri desideri o bisogni …
      “al rifiuto del bisogno degli altri,” altra frase che mi ha colpito e mi rappresenta, ho bisogno di sentirmi indipendente e bastante a me stessa, ma sotto sotto ho paura del giudizio degli altri !!

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      • capisco bene la tua diversità in merito alla connotazione di “dipendenza”, è comunque una sorta di “contro-dipendenza ” perché nell’ottica introspettiva, rendersi indispensabili agli altri, sacrificandosi e dandosi a piene mani, a livello subconscio, consente di evitare di guardare dentro di noi.
        Investendo e canalizzando tutte le energie sull’esterno riempiamo il nostro tempo e la nostra vita, distogliendo l’attenzione e la consapevolezza dal nostro mondo interiore.
        Questo a volte accade per una paura profonda e radicata di affrontare il nostro sentire interiore, popolato da tutte le nostre subpersonalità , i conflitti tra di esse e tutte quelle forti emozioni che la nostra razionalità considera inaccettabili.
        Ci facciamo irretire dalla nostra mente e dalle paure che questa genera in modo illusorio. Queste paure hanno il compito di tenerci lontani dal contatto con noi stessi, alimentando quella profonda solitudine e quell’incommensurabile senso di vuoto che talvolta ci sommerge e ci annienta.
        Per quanto riguarda la paura del giudizio degli altri, anche questo è un argomento molto interessante, in realtà però il giudizio che più temiamo è sempre principalmente quello del nostro Giudice Interiore, da cui cerchiamo di sfuggire in mille modi, ma dal quale per definizione è impossibile immunizzarsi, se non dopo un lungo e paziente percorso interiore di accoglienza.
        Il giudizio degli altri ci ferisce perché nel nostro profondo condividiamo quella condanna.
        Un GRAZIE per gli interessanti spunti che sono certa arricchiranno tutti noi.
        Antonella

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